Interviste: parla l’amatore Matteo Olivetto: “La Dakar è come la vita”

Una persona solare dal primo momento in cui lo si incontra. Così è Matteo Olivetto, pompiere classe 1976, padovano ed appassionato di moto, di viaggi e di avventure. Come lui spesso si definisce, Olivetto è una “persona normalissima” che, però, prova un amore, quasi romantico, per quella gara, quella prova di forza famosa in tutto il mondo come “Dakar”. Ed è da questa sua passione, quasi ossessiva, che Matteo Olivetto è riuscito a coronare il sogno di una vita: partecipare alla celeberrima Paris – Dakar.

Un “regalo” un pò particolare per Matteo Olivetto

  • Da dove è nata questa tua decisione di partecipare alla mitica Dakar ? Quali erano e quali sono gli obiettivi che ti eri e che ti sei prefissato ?

Quando ero piccolo la Dakar era una gara molto conosciuta e, personalmente, a me affascinava molto. Io amavo viaggiare. La Dakar, infatti, era, ed è, il simbolo del viaggio ma, diciamo, rappresenta anche cose che noi comuni mortali non viviamo usualmente. E’, più propriamente, il simbolo dell’avventura. Ero attratto da questa gara già da quando frequentavo le scuole elementari. Non seguivo la Dakar tecnicamente, però ne ero così affascinato che scrissi addirittura un tema descrivendone tutte le tappe (ride). Dopodiché, grazie alla mia famiglia, arrivò anche la passione per la moto. Tutti in casa erano motociclisti ma, a differenza di molti altri miei coetanei, non feci mai competizioni. Iniziai a far gare quando andai, per puro caso, in Africa in vacanza. Qui mi chiesero di partecipare ad un rally, quello di Atene. Da lì iniziò tutto.

Matteo Olivetto era appassionato di viaggi in moto e li ha lasciati per i rally, sia internazionali che nazionali. Ho corso, infatti, anche nel campionato italiano. Mi sono sempre detto: “Per i 40 anni i soldi me li “mangio” per qualcosa di importante”. Per i 40 anni, di conseguenza, decisi, con la mia compagna, di partire per la Dakar. Per poter debuttare alla Dakar, però, devi avere un curriculum ben forbito e, quando – e se – ti accettano alla prima Dakar, è già una vittoria. Il mio obiettivo per la prima Dakar era quello di partecipare.

Detta sinceramente, ero convinto che mi avrebbero accettato ma non lo diedi mai per scontato. Bisogna sempre accettare una percentuale di rischio in tutto quello che si fa. La passione per viaggi, per le avventure e per la moto mi ha permesso di coronare il mio sogno in occasione dei miei 40 anni. Un sogno, però, non portato totalmente a termine. A due tappe dalla fine, infatti, ho avuto un problema meccanico che mi ha costretto al ritiro. L’obiettivo, per la prossima Dakar, è quello di finire l’intera prova.

Cibo, ansia e paura

  • L’alimentazione in corso di preparazione ha dovuto seguire dei ritmi molto rigidi per prepararsi al clima desertico ? E durante la gara ? Su cosa si basava la tua alimentazione ?

Personalmente ritengo che l’alimentazione sia una questione soggettiva. Penso che la Dakar sia come la vita, se fai le cose fatte bene tutto andrà meglio per te. Io sono una persona normalissima, se prima della Dakar mangio qualcosa di leggero come verdure e cereali so che sto facendo del bene a me stesso. A livello amatoriale, il risultato migliore è comportarsi bene ma non farne una malattia. Non si deve essere sofferenti. Meglio bersi la birra in più piuttosto che arrivare lì già con il morale sotto i piedi. Basta un occhio di riguardo senza impazzire.

Quando si è nel bel mezzo della gara, bisogna stare attenti ad evitare problemi fisici legati, per esempio, a dissenteria o simili. Durante la Dakar si mangia quello che si ha tempo di mangiare. Una febbre a 38, 39 è pesante da sopportare e bisogna avere un fisico pronto a combatterla. L’alimentazione deve essere intelligente, non forzata né minimale. L’organizzazione a livello culinario ad oggi è fornitissima con qualsiasi tipo di cibo.

Il “pacco gara”, per esempio, viene consegnato la sera quando si giunge al traguardo della tappa. Al suo interno si trova tutto l’occorrente per il giorno dopo, dalle barrette alla frutta. Di mattina la colazione deve essere abbondante ma non eccessiva. Infatti, durante il giorno si mangia qualcosa di veloce come una barretta per perdere meno tempo e non rischiare di stare male. L’ansia, poi, è un elemento molto pericoloso perché potrebbe rendere problematica l’assunzione di cibo.

  • Il fattore paura come ha interagito con la tua prova ? Insomma, restare nel bel mezzo del nulla per così tanto tempo deve essere affascinante ma, al contempo, molto sinistro.

Dipende da cosa si intende per paura. Secondo me, quella che molti chiamano “paura”, in realtà, è solo “ansia”. La paura è diversa dall’ansia. La paura di essere abbandonati dal proprio mezzo, per esempio, è un pensiero, non è una paura. Durante la Dakar non ho mai provato paura. L’unica volta che ho avuto paura è stato quando sono rimasto a piedi. Sia chiaro, non avevo paura di serpenti o scorpioni.

Quella mattina, infatti, mi sono svegliato e quello che vidi attorno a me fu il nulla. Ero solo. Rimasi così, da solo, per molte ore e la mia paura era quella che nessuno venisse a prendermi. Che non mi trovassero. Che fossi destinato a rimanere lì per sempre. La gara in sé non mi ha fatto paura, siamo preparati ad affrontare quello che ci aspetterà. Ci prepariamo per anni interi.

Un holeshot che dura 15 giorni

  • Quali sono le difficoltà che si possono incontrare in una competizione del genere ? La preparazione della moto, del fisico e, soprattutto, della mente come sono state affrontate ?

Bisogna, innanzitutto, mettersi in riga con la dieta. E’ necessario andare correre a piedi o in bici ed andare in palestra. Gli ultimi mesi prima della gara sono quelli più importanti. La Dakar è una prova che si deve preparare almeno sei mesi prima a livello fisico. La corsa in bicicletta, per esempio, aiuta perché, bene o male, sei sopra in sella.

Anche alzarsi alle 3 di notte per correre in moto è una prova fisica non indifferente. Un mio amico, per esempio, percorreva in moto il tratto autostradale da Bergamo a Venezia stando in piedi per allenarsi alle lunghe traversate. La questione, però, è mentale più che fisica. Per quanto riguarda l’allenamento mentale non so proprio cosa rispondere.

Non si parla di una gara di motocross che dura 30 minuti, qui ci vuole l’equilibrio di un endurista, l’aggressività di un crossista e la pazienza di un maratoneta. Ci vuole tanta passione. Anche i piloti ufficiali si preparano indicativamente alla stessa maniera degli amatori.

L’allenamento della testa è legato, per esempio, alla volontà di andare a correre la mattina presto anche se fuori diluvia. Se si torna stanchi dopo una giornata di lavoro e si va in palestra, dimostriamo a noi stessi di amare la causa per cui lottiamo. La Dakar è un holeshot che dura 15 giorni.

Una gara “per la gente”. Parola di Matteo Olivetto

  • Perché hai deciso di correre la seconda Dakar ? La prima era legata ad un “regalo” per i tuoi 40 anni. Questa da cosa è stata sospinta ?

Quando mi fanno questa domanda rispondo sempre che questa Dakar la corro “per la gente”. Mi spiego meglio. Abbiamo deciso di correre anche questa Dakar per onorare la passione e la vicinanza che la gente ha avuto verso di me. Il coinvolgimento di tutte le persone, una volta tornato dalla prima Dakar, mi ha spinto a fare di meglio ed a riprovare quest’esperienza. Alla prima non avevo tutto questo supporto. Sono sicuro che non deluderò i miei tifosi.

  • Descrivi la Dakar in tre parole.

Dirimpetto direi “vita, amore ed odio”.

Vita” perché la Dakar occupa ogni aspetto dell’esistenza di chi la intraprende. Il pilota ci dedica anima e corpo a tal punto che diventa totalmente la propria vita per un periodo.

Amore” perché ami così tanto la Dakar che sacrifichi tutto per lei.

Odio” perché, ad un certo punto, arrivi ad odiarla da tanto che la ami. Anzi no, ripensandoci, non è odio. Più che odio oserei parlare di amarezza. Hai presente quando corteggi una donna per una vita e poi ti senti dire da questa: “Non sei il mio tipo” ? Non è odio, è proprio disincanto. E’ magia.

Ripensandoci non si può proprio parlare di odio. Forse, più, si può parlare di viaggio. Ecco, sì, viaggio è la terza parola. Ma non si tratta solo della gara in sé. La prova finale, per l’organizzazione che c’è sotto, è una vera liberazione ma la Dakar è un percorso che inizia molto tempo prima.

La Dakar è come la vita, è così vaga che non si può prendere una linea e seguirla uguale per sempre.

Matteo Olivetto